Esempi di curve
di luce misurate da Kepler con il metodo del transito nel caso di cinque
esopianeti. Dal
periodo e dalla profondità della curva di luce, si possono ricavare
informazioni sull'orbita e sulla dimensione del pianeta. Credit:
NASA/Kepler
Verso la
ricerca di una nuova Terra
Una delle
domande che si pongono oggi gli astronomi è la seguente: la vita è solo una
questione che riguarda la Terra o la nostra Galassia è popolata di numerosi sistemi
planetari dove è possibile che esistano altre civiltà intelligenti? Alcuni
ricercatori hanno proposto una campagna di osservazioni sfruttando il metodo della
microlente gravitazionale per cercare pianeti di tipo terrestre. Andando ad
analizzare quei sistemi stellari costituiti dalle nane rosse, essi ipotizzando che
ne potranno rivelare almeno 100 miliardi nella Via Lattea [1]. Questo numero
potrebbe addirittura aumentare se si riuscirà a mettere insieme una rete di
telescopi automatici anche di dimensioni modeste e sparse sul globo in modo da
monitorare la deflessione dei raggi luminosi e incrementare così il tasso di
successo nell’identificazione degli esopianeti. Anche un altro gruppo di
ricercatori arriva alle stesse conclusioni dopo aver osservato Kepler-32, un
sistema planetario rappresentativo che fornisce tutta una serie di indizi sulla
formazione planetaria [2]. Qui, la stella ospite è una nana di tipo spettrale
M, una categoria che rappresenta quasi il 75% di tutte le stelle presenti nella
nostra Galassia. I pianeti osservati da Kepler, che sono simili come dimensioni
alla Terra e orbitano vicini alla stella, sono tipici di una classe rappresentativa
in quasi tutti i sistemi stellari composti da una stella nana di tipo spettrale
M. Dunque, ciò implica che la maggior parte dei sistemi planetari ‘compatti’
hanno tutti caratteristiche simili a quelle di Kepler-32 che si può considerare
una sorta di prototipo della classe. Secondo un altro studio, di questi 100
miliardi di pianeti simili alla Terra ce ne sarebbero almeno 100 milioni
potenzialmente abitabili [3]. Questo dato deriva da un nuovo metodo di calcolo
che ha lo scopo di esaminare quei corpi celesti che potrebbero ospitare la vita
a livello microbico.
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La figura mostra una rappresentazione artistica di quei pianeti potenzialmente abitabili, aggiornata al 4 Agosto 2014. Come si vede dall’immagine, la maggior parte di essi hanno dimensioni più grandi della Terra e non si è ancora certi sulla loro composizione chimica ed abitabilità. La lista è soggetta a cambiamenti man mano che vengono registrati nuovi dati dalle osservazioni. Per confronto, sono mostrati a destra la Terra, Marte, Giove e Nettuno. Credit: PHL@UPR Arecibo
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La zona
abitabile
La
possibilità che la vita possa ancora esistere sui quei mondi che si trovano nella
cosiddetta zona abitabile, cioè quella regione dello spazio attorno alla stella
centrale dove ci si aspetta che l’acqua sulla superficie del pianeta esista
allo stato liquido, non costituisce un fatto assodato. Alcuni scienziati hanno
sviluppato un modello per determinare se gli esopianeti già identificati si
trovano, o meno, nella zona abitabile [4]. Il loro lavoro si basa su un modello
precedente ma offre stime più accurate su come può essere determinata la zona
abitabile attorno alle stelle. Il
fatto sorprendente è che i nuovi dati suggeriscono che le zone abitabili si
trovino in regioni dello spazio che sono molto più distanti dalla stella. Ora questo
modello sarà utilizzato per le future osservazioni spaziali che saranno condotte
con i telescopi del programma Terrestrial Planet Finder in modo da guidare, per così
dire, gli astronomi verso la ricerca di altri pianeti simili alla Terra. Da una analisi statistica dei sistemi
stellari di massa modesta, come le nane di tipo spettrale M, è emerso che il numero di pianeti potenzialmente
abitabili sembra essere molto
maggiore di quanto sia stato ipotizzato in precedenza e alcuni di essi
potrebbero essere presenti attorno alle stelle più vicine al Sole [5]. Gli
astronomi si interessano a questo tipo di stelle per diversi motivi. Ad
esempio, il periodo impiegato a descrivere un’orbita attorno alle nane-M è
molto breve e questo permette ai ricercatori di acquisire una grande quantità
di dati monitorando un elevato numero di orbite rispetto al caso delle stelle
di tipo Sole dove la zona di abitabilità è molto più ampia. Inoltre, le nane-M
sono molto più comuni e ciò vuol dire che sono più facilmente osservabili. I
calcoli suggeriscono che la distanza media del pianeta più vicino
potenzialmente abitabile risulta mediamente 7 anni-luce, ossia circa la metà
del valore precedentemente stimato. Infatti, da una stima molto conservativa si deduce
che esistono almeno otto stelle di tipo M entro 10 anni-luce, perciò ci si
aspetta di trovare almeno tre pianeti di tipo terrestre nella zona abitabile. Questi risultati sono il
proseguimento di uno studio condotto nel 1993 da un gruppo di ricercatori di
Harvard che hanno analizzato un campione di 3987 stelle di tipo M al fine di
calcolare quanti pianeti di tipo terrestre ci si aspetta nella zona abitabile.
Ad ogni modo, le nuove stime che si basano sui dati di Kepler, derivano da un
modello in cui è stata inserita l’informazione sull’assorbimento dell’acqua e
dell’anidride carbonica, un dato che non era disponibile nel 1993. Applicando
questo ed altri parametri al modello del gruppo di Harvard e utilizzando lo
stesso metodo di calcolo, è stato trovato che il numero di pianeti nella zona
abitabile è superiore di almeno un fattore tre. Insomma, pare che i pianeti
terrestri siano molto più comuni di quanto sia stato ipotizzato in precedenza e
ciò rappresenta un segnale positivo soprattutto per ciò che riguarda la ricerca
della vita extraterrestre.
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La figura illustra la distanza a cui si trova la zona abitabile rispetto a varie tipologie di stelle. La zona abitabile tende ad allontanarsi dalla stella ospite man mano che aumentano le sue dimensioni.
Credit: C. Herman/Penn State University
Metodi di
ricerca ‘alternativi’
La lista di Kepler è costituita attualmente da oltre 4234 candidati e solo 1816
sono stati confermati pianeti. Ciò suggerisce che gli esopianeti sono un fenomeno comune e sono
presenti numerosi nella Via Lattea. Questi risultati permettono agli astronomi
di avere diverse indicazioni su quali metodi e strategie utilizzare per
condurre le osservazioni al fine di aumentare la percentuale di successo.
Vedremo qui di seguito quali sono i metodi di ricerca cosiddetti ‘alternativi’
che i ricercatori stanno sviluppando per esplorare lo spazio verso quei sistemi
stellari di maggiore interesse.
a) Stelle giovani e stelle ‘morenti’
Un gruppo di
ricercatori hanno pubblicato un articolo nel
quale forniscono una serie di metodi per dare la caccia ai pianeti di altre
stelle [6]. Esaminando una serie di dati nuovi ed esistenti, sia sulle stelle
normali che sulle nane brune che hanno una età inferiore a 300 milioni di anni,
gli autori hanno individuato 144 sistemi stellari, di cui 20 sono candidati
molto interessanti. La lista dei candidati viene monitorata con una campagna di
osservazioni denominata Gemini’s NICI Planet-Finding
Campaign e dalla Planets Around Low-Mass
Stars (PALMS) survey. Analizzando gli spettri e i moti delle stelle, gli scienziati sono stati in
grado di derivare l’età di ogni singola stella. Dal momento che stelle di
piccola massa sono piccole e deboli, esse possono essere considerate dei buoni
candidati dove si spera si possano rivelare i pianeti. Non solo, ma le stelle
giovani rendono ancora più semplice l’obiettivo della ricerca in quanto ci si
aspetta che i pianeti siano in formazione e perciò sono ancora caldi e
luminosi. Per ricavare questa lista di candidati, i ricercatori hanno passato
al setaccio, per così dire, i dati di circa 8700 stelle che sono distribuite in
un raggio di 100 anni-luce rispetto al Sole. Dunque, dal momento che le stelle
di piccola massa sono quelle più comuni, ci si aspetta che la maggior parte dei
pianeti si trovino in questi sistemi stellari. L’individuazione delle versioni
più giovani di queste stelle risulta di fondamentale importanza per capire il
censimento galattico dei pianeti extrasolari. Le stelle si comportano come
degli indicatori perciò se esisteranno dei gioviani caldi quasi certamente
saranno individuati.
Ma anche le stelle che si trovano nella fase finale della
loro evoluzione potrebbero ancora ospitare dei pianeti sui quali la vita, se
esiste, potrebbe essere rivelata con le future missioni spaziali. Queste
considerazioni incoraggianti derivano da una serie di studi sui pianeti di tipo terrestre che orbitano attorno alle nane bianche. Alcuni
teorici hanno concluso che si potrebbe rivelare l’ossigeno presente nelle
atmosfere planetarie molto più facilmente rispetto al caso dei pianeti che
orbitano, invece, attorno alle stelle di tipo solare [7]. Quando una stella
come il Sole termina il suo ciclo vitale, spazza nel mezzo interstellare gli
strati più esterni dando luogo ad una nebulosa planetaria e si lascia dietro un
nucleo denso, caldo e collassato, cioè il prodotto finale chiamato nana bianca.
Queste stelle in fin di vita hanno le dimensioni della Terra. La stella si
raffredda lentamente e si indebolisce nel corso tempo anche se può trattenere
ancora a lungo del calore residuo che è ancora in grado di riscaldare un
pianeta che orbiti ad una distanza minima anche per diversi miliardi di anni.
Dato che una nana bianca è molto più piccola e più debole del Sole, un pianeta per
essere considerato potenzialmente abitabile dovrebbe trovarsi molto vicino alla
stella affinchè l’acqua si trovi sulla superficie allo stato liquido. Inoltre,
questo pianeta dovrebbe orbitare attorno alla stella una volta ogni 10 ore e
trovarsi ad una distanza di circa 1,5 milioni di chilometri. Ora, secondo la
teoria dell’evoluzione stellare, prima che la stella diventi una nana bianca,
essa passa attraverso la fase di gigante rossa inglobando e distruggendo qualsiasi
pianeta che si trovi nel suo raggio d’azione. Di conseguenza, un pianeta
potrebbe migrare nella zona abitabile dopo
che la stella sia evoluta nella fase di nana bianca. Il pianeta potrebbe
comunque formarsi nuovamente dall’accrescimento di polveri e gas, cioè sarebbe
un pianeta di ‘seconda generazione’, oppure potrebbe spostarsi verso l’interno
dalle regioni esterne più distanti. Insomma, se esistono pianeti nella zona
abitabile delle nane bianche dovremmo prima o poi trovarli. L’abbondanza di
elementi pesanti sulla superficie delle nane bianche implica che una frazione
significativa di queste stelle collassate possiede pianeti rocciosi. Gli
scienziati stimano che una campagna di osservazioni delle 500 nane bianche più vicine
potrebbe darci alcuni indizi sulla presenza di una o più terre potenzialmente
abitabili. La miglior strategia per rivelare questi pianeti consiste nel metodo
del transito, quando
cioè la luce di una stella si indebolisce nel momento in cui un pianeta passa
davanti al disco stellare. Dato che una nana bianca ha circa le dimensioni
della Terra, un pianeta di tipo terrestre dovrebbe bloccare una maggiore
frazione di luce e produrre così un segnale caratteristico della sua presenza.
Ma ancora più importante è il fatto che gli astronomi sono in grado di studiare
le atmosfere dei pianeti che transitano davanti al disco della propria stella.
Infatti, quando la luce della nana bianca brilla attraverso l’anello di luce
che circonda il disco planetario, l’atmosfera assorbe parte della radiazione.
Durante la fase del transito si producono delle ‘impronte digitali chimiche’ da
cui è possibile capire se l’atmosfera contiene vapore acqueo o addirittura
bioindicatori dati dalla presenza di ossigeno. Sulla Terra, sappiamo che
l’atmosfera viene continuamente rifornita di ossigeno attraverso la fotosintesi dovuta
alle piante. Ma se un giorno tutte le forme di vita cessassero di esistere, la
nostra atmosfera diventerebbe immediatamente priva di ossigeno che successivamente
si dissolverebbe negli oceani e di conseguenza ossiderebbe la superficie
terrestre. Il telescopio spaziale James Webb (JWST), che sarà lanciato in orbita entro la fine di questo decennio, promette di
essere un buon strumento d’indagine per rivelare la presenza di gas nelle
atmosfere aliene. Gli astronomi hanno simulato uno spettro sintetico sulla base
di ciò che JWST potrebbe vedere analizzando l’atmosfera di un pianeta
extrasolare che orbita attorno ad una nana bianca. I dati suggeriscono che sia
l’ossigeno che il vapore acqueo potrebbero essere rivelati con sole poche ore
di osservazione. Un altro studio, però, ha dimostrato che è molto probabile che
un pianeta abitabile vicino si trovi attorno ad una nana rossa. Infatti, poichè la nana rossa, nonostante sia
più piccola e più debole del Sole, è molto più brillante e più grande di una
nana bianca, il suo alone di luce potrebbe sovrastare il debole segnale
dell’atmosfera di un pianeta che orbita attorno ad essa. Il telescopio spaziale
JWST sarebbe perciò costretto ad osservare centinaia di ore di transito e
sperare di catturare la composizione chimica dell’atmosfera planetaria.
Comunque sia, gli scienziati sono convinti che il pianeta più vicino e per il
quale potremo essere in grado, un giorno, di verificare una eventuale presenza
di vita aliena si troverà molto probabilmente attorno ad una nana bianca.
b) La relatività speciale
La ricerca di nuovi mondi rappresenta una
sfida impegnativa perché stiamo parlando di oggetti molto piccoli, deboli,
e vicini alle loro stelle. Abbiamo detto in precedenza che le due tecniche più
promettenti utilizzano il metodo della velocità radiale
o spostamento Doppler, che si basa sull’oscillazione delle stelle, ed il metodo del transito, che sfrutta la variazione di
luminosità della stella ospite dovuta al passaggio dei pianeti davanti al disco
stellare. Alcuni ricercatori hanno scoperto di recente un gioviano
caldo grazie ad un nuovo metodo che si basa sulla relatività speciale [8]. Grazie all’elevata qualità dei
dati forniti dal satellite Kepler, sono stati misurati effetti molto piccoli
della luminosità della stella al livello di poche parti per milione. Sebbene
Kepler sia stato progettato per trovare pianeti con il metodo del transito,
Kepler-76b è stato scoperto utilizzando una tecnica che si basa su tre effetti,
molto deboli da misurare, che si verificano contemporaneamente quando un
pianeta orbita attorno alla stella. Il primo di questi è noto con il termine di “beaming” relativistico, un effetto previsto dalla
relatività speciale che causa un aumento di luminosità quando la stella si
muove verso l’osservatore, soggetta alla gravità del pianeta, e viceversa
quando si allontana. Il secondo effetto tiene conto della forma allungata che
la stella assume a causa delle forze di marea dovute al pianeta in
questione. La stella appare più luminosa quando la osserviamo di lato,
poichè offre una maggiore superficie visibile, e più debole quando il pianeta
la attraversa. Il terzo effetto è dovuto alla luce stellare riflessa dal
pianeta stesso. I dati di Kepler suggeriscono che il pianeta transita davanti
alla sua stella, il che fornisce una ulteriore conferma della sua
scoperta. Il cosiddetto “pianeta di Einstein” è un gioviano
caldo e orbita ogni 1,5 giorni
attorno ad una stella di classe spettrale F che
si trova a circa 2000 anni-luce dalla Terra, nella costellazione del Cigno. La sua dimensione è circa il 25%
maggiore rispetto a quella di Giove e la sua massa è circa il doppio. Inoltre,
il pianeta ha un moto di rivoluzione sincrono, cioè mostra sempre lo stesso
lato alla stella, proprio come nel caso della Luna con la Terra, e la sua
temperatura superficiale raggiunge i 2000 gradi Celsius. Nonostante questo
metodo non sia ancora sufficientemente adeguato per la ricerca di nuove terre,
esso comunque offre agli astronomi un’occasione unica perchè da un lato
non necessita di spettri ad alta precisione e dall’altro non richiede un
allineamento perfetto del pianeta con la stella ospite.
c) Oceani su mondi alieni
Rivelare l’acqua sulla superficie di un pianeta sta
diventando una priorità dato che, almeno per quanto ne sappiamo, essa
rappresenta un elemento essenziale per la sua abitabilità. Uno studio ha
esaminato la possibilità che la riflettività della superficie di un mondo
alieno possa essere interpretata come una chiara evidenza della presenza di
oceani [9]. Gli
scienziati stanno sviluppando tutta una serie di metodi per rivelare la
presenza di acqua sulla superficie di un esopianeta, visto ormai il grande
numero di oggetti che orbitano nella cosiddetta zona abitabile dove si ritiene
che l’acqua possa esistere allo stato liquido. Uno di questi metodi si basa
sulla riflessione speculare, nota anche come “luccichio”, simile a quello dovuto
alla riflessione della luce solare sulla superficie di un lago o di un mare,
che può determinare una riflettività apparente nota come albedo. Secondo questo
metodo, non è necessario osservare l’intero disco del pianeta, cioè quando esso
riflette la luce in maniera simile a quella che viene riflessa dal nostro
satellite naturale durante la fase di Luna piena, bensì è possibile osservare
la riflettività della superficie anche durante una fase parziale della sua
orbita, per esempio durante la fase crescente. In questo caso ci si aspetta che
l’albedo aumenti e perciò potrebbe rappresentare un segnale della reale
presenza di acqua liquida sulla superficie del pianeta. Inoltre, un altro
gruppo di ricercatori hanno condotto una serie di studi allo scopo di capire
l’importanza degli oceani come fattore fondamentale per caratterizzare le
condizioni climatiche sui pianeti simili alla Terra [10]. Finora, la maggior
parte delle simulazioni numeriche che riproducono le condizioni di abitabilità principalmente sui pianeti terrestri si sono focalizzate sull’analisi
delle atmosfere planetarie. Ma la presenza degli oceani sulla superficie di un
esopianeta può rappresentare un parametro significativo per permettere
l’esistenza di un clima accettabile. In tal senso, i ricercatori hanno
realizzato una serie di simulazioni che riproducono la circolazione oceanica di
un ipotetico pianeta simile alla Terra in modo da
studiare come la rotazione planetaria influenzi il trasporto di calore in presenza degli oceani. Uno degli
aspetti più importanti è dato dal fatto che il calore trasportato dagli oceani
avrebbe un maggiore impatto sulla distribuzione della temperatura sulla
superficie del pianeta e potrebbe, in linea di principio, permettere
l’esistenza di aree potenzialmente abitabili. Ad esempio, Marte si trova nella zona abitabile ma non possiede oceani e ciò
determina escursioni di temperatura di circa 100 gradi centigradi. Insomma,
sappiamo che gli oceani possono rendere più stabile il clima di un pianeta e
perciò tenerne conto nei modelli ci permetterà di ricavare preziosi indizi
sulle condizioni di abitabilità dei mondi alieni.
d) Impulsi laser alieni
Uno degli argomenti attuali della ricerca condotta dall’Istituto SETI (Search for Extra Terrestrial Intelligence) riguarda la
possibilità che qualche civiltà intelligente possa inviare nello spazio
segnali laser ad impulsi. Questo tipo di approccio potrebbe sembrare
arcaico, un pò come quando gli uomini del XVIII secolo utilizzavano per
comunicare, si fa per dire, la riflessione della luce solare mediante gli
specchi oppure, successivamente, i telegrafi per comunicare da una nave ad
un’altra. Di fatto, l’idea di utilizzare i segnali luminosi per stabilire un
contatto cosmico non è molto vecchia. Verso la metà del XIX secolo, sia il
matematico e astronomo tedesco Carl Gauss che
l’inventore francese Charles Cros suggerirono
l’utilizzo di lanterne e specchi per attirare l’attenzione dei “marziani”.
Oggi, con le tecniche più moderne, diventa affascinante l’idea di far uso di
impulsi laser di estrema intensità da trasmettere nello spazio. In tal senso,
alcuni scienziati del Lawrence Livermore National
Laboratory hanno costruito un
laser capace di inviare impulsi con una potenza pari a 1000 trilioni
di Watt, nonostante gli impulsi siano di breve durata. Lo strumento si
chiama Nova e non è certo il puntatore laser che utilizziamo
per le nostre presentazioni. Immaginiamo, per un istante, di installare il
laser Nova su uno specchio di 10 metri e di focalizzarne il suo fascio
inviandolo nello spazio verso una stella che si trovi ad una distanza di circa
50 anni-luce. Si può calcolare, facilmente, che ogni impulso rilascerà circa 10
fotoni per metro quadrato che arriveranno sulla superficie degli
eventuali esopianeti. Se confrontiamo questo valore con la luminosità
emessa dal Sole in tutte le direzioni, che è di circa 4x1026 Watts, si trova che anche la luce solare
raggiunge la superficie di quei pianeti, seppur distanti, con un valore pari a
circa 250 milioni di fotoni per secondo. Quest’ultimo valore sembrerebbe
sminuire la portata del nostro super laser ma certamente non è così se
consideriamo un intervallo di tempo dell’ordine del trilionesimo di secondo
quando arriva l’impulso. In altre parole, quel breve impulso laser fornisce 8
fotoni per metro quadrato contro un valore di 0,00025 fotoni per metro
quadrato dovuti alla luce solare. Questo vuol dire che per un brevissimo
intervallo di tempo, l’impulso laser supera la luminosità del Sole di circa un
fattore 30.000! Dunque, cosa fanno i ricercatori del SETI ottico? Essi puntano i loro strumenti verso stelle vicine, in termini di
distanza, e contano i fotoni che arrivano durante brevissimi intervalli di
tempo, che sono tipicamente dell’ordine del miliardesimo di secondo. Il flusso
di fotoni che arriva dalla stella, precedentemente selezionata, causerà un
picco, o due, nel conteggio dei fotoni, non più di questo. Se, però, qualche
civiltà aliena ha costruito uno strumento simile al nostro e decide di puntarlo
nello spazio, potrebbe accadere, al contrario, di registrare dei picchi di
intensità nel segnale che stiamo analizzando. Insomma, potremmo avere a che
fare con qualche civiltà intelligente che sta trasmettendo una serie di impulsi
laser proprio come noi ce li immaginiamo. Sarebbe un modo fantastico di
stabilire un contatto cosmico. Oggi, questo tipo di esperimenti sono
attualmente condotti da diversi ricercatori del SETI e da alcune università.
Essi hanno già analizzato alcune centinaia di stelle alla ricerca di impulsi
luminosi alieni e i dati sono in corso di elaborazione. Si spera, così, di
avere un risultato significativo nei prossimi anni che dia credito a questa tecnica
in modo da poterla ottimizzare per i futuri esperimenti.
e) L’illuminazione delle città extraterrestri
Nella
corsa alla ricerca di intelligenze extraterrestri, gli astronomi stanno
cercando di rivelare da un lato segnali radio con il programma SETI e dall’altro
brevissimi impulsi laser artificiali, come abbiamo spiegato nel paragrafo
precedente. C’è, però, chi suggerisce un metodo alternativo per rivelare la
presenza di una eventuale civiltà aliena: l’illuminazione cittadina [11]. Così
come i metodi utilizzati dal SETI si basano sull’assunzione secondo la quale
eventuali civiltà aliene potrebbero utilizzare tecnologie di tipo terrestre,
anche questa ipotesi prevede che esseri intelligenti siano evoluti al punto
tale da aver costruito una rete per l’illuminazione urbana. Naturalmente, per rivelare una tale luce
artificiale occorrerà osservare in dettaglio ogni variazione di luminosità
proveniente dalla superficie del pianeta man mano che esso orbita
attorno alla sua stella ed in particolare quando si trova durante la fase di
ombra. Per fare ciò, saranno necessari telescopi di nuova generazione
anche se questa tecnica potrà essere verificata osservando, ad esempio, come
apparirebbero le luci cittadine del nostro pianeta da un satellite che si trova
nelle regioni più estreme del Sistema Solare. Si calcola che i telescopi
attualmente disponibili sono in grado di rivelare la luce di una metropoli come
Tokyo dalla distanza a cui si trova la cosiddetta fascia di Kuiper, cioè
quella regione dello spazio interplanetario al di là di Plutone dove si trovano
i corpi minori del Sistema Solare. Insomma, si tratta di una tecnica di
individuazione molto difficile ma il principio della Scienza è quello di
trovare un metodo che ci permetta di applicarlo per avere un risultato
scientifico. Forse un giorno saremo in grado di rivelare le luci di una città
aliena che si trova su un altro mondo? Chi lo sa, non ci rimane al momento che
attendere ed osservare attentamente.
Se una civiltà aliena costruisse una rete di illuminazione cittadina, quelle luci potrebbero essere osservate dai telescopi di nuova generazione. Ciò potrebbe rappresentare un nuovo metodo per rivelare l’esistenza di civiltà extraterrestri nella nostra galassia. Credit: D.A. Aguilar/Center for Astrophysics - Harvard |
f) Le atmosfere planetarie
Di recente è stato sviluppato
uno strumento d’indagine che non richiede
grossi telescopi o satelliti in orbita. Si tratta di una
tecnica che utilizza un telescopio ad infrarossi di piccole
dimensioni per identificare molecole organiche nell’atmosfera di
un esopianeta gioviano che si trova a circa 63 anni-luce [12]. Questo metodo
permetterà, in futuro, di studiare le atmosfere planetarie che
possiedono molecole legate alla presenza di eventuali forme biologiche accelerando
così la ricerca di pianeti simili alla Terra. Nel 2007, gli astronomi puntarono l’Infrared
Telescope Facility (ITF), un telescopio di 3 metri della NASA situato a
Mauna Kea nelle Hawaii, nella direzione della costellazione della Volpetta
dove si trova il pianeta gioviano HD 189733b. Il suo periodo di
rivoluzione è di 2,2 giorni e la sua stella ospite, molto più piccola del
nostro Sole, fornisce al pianeta una temperatura superficiale di oltre
1500 gradi Celsius. Facendo uso dello spettrografo
SpeX, i ricercatori hanno ricavato la composizione chimica
dell’atmosfera di HD 189733b trovando tracce di diossido di
carbonio e metano, un risultato straordinario e senza precedenti se
si pensa che è stato ottenuto con un osservatorio situato a Terra e non nello
spazio. Inoltre, durante le osservazioni, i ricercatori hanno trovato una
forte emissione nell’infrarosso associata al metano. Questo dato
potrebbe indicare la presenza di qualche attività forse correlata
alla radiazione ultravioletta proveniente dalla stella che riscalda
gli strati superiori dell’atmosfera del pianeta. Più recentemente, nel 2013, un gruppo di ricercatori dell’ESO hanno
trovato tracce di molecole di acqua nell’atmosfera del pianeta grazie ad una
serie di osservazioni realizzate con il Very Large
Telescope (VLT) dell’ESO, dando così credito ad una tecnica alternativa che
permetterà agli astronomi di cercare l’acqua su altri mondi in maniera
efficiente e senza far uso di telescopi spaziali [13]. Di solito, gli astronomi
individuano la presenza di un pianeta misurando la sua influenza gravitazionale
che esso produce sulla stella causando una attrazione minima che la fa muovere
su un orbita stretta con una velocità di qualche chilometro all’ora. Questo
movimento determina uno spostamento minimo, avanti e indietro, delle righe
dello spettro stellare, un effetto noto come spostamento Doppler, seguendo
l’oscillazione della stella. Ora, i ricercatori hanno invertito la tecnica
misurando l’effetto gravitazionale che la stella produce sul pianeta. In questo
modo, gli effetti sul pianeta diventano molto più grandi e il suo moto orbitale
che ne risulta è di 400.000 Km/h. Le misure sono state ottenute analizzando lo
spostamento Doppler delle righe dell’acqua osservate nello spettro del pianeta
man mano che orbita attorno alla stella. Nonostante la velocità sia più elevata
rispetto a quella della stella, essa risulta quasi un migliaio di volte più
debole e ciò complica le misure. Ad ogni modo, gli astronomi sono stati in
grado di realizzare le misure della riga dell’acqua grazie allo strumento CRIRES
(CRyogenic high-resolution InfraRed Echelle Spectrograph) installato sul VLT.
Utilizzando sempre la stessa tecnica, gli scienziati hanno poi individuato
nell’atmosfera del pianeta altre molecole, come ad esempio quella più semplice
del monossido di carbonio, anche se si tratta della prima volta per cui è stata
identificata la molecola più complessa dell’acqua. La rivelazione di queste molecole
apre una nuova finestra verso lo studio della composizione chimica delle
atmosfere planetarie, incluse quelle del metano e del biossido di carbonio, che
sono gli ingredienti chiave da cui possiamo ricavare preziosi indizi sulla
storia evolutiva del pianeta. L’esistenza di eventuali bioindicatori potrà essere dedotta dalla presenza
di gas che si
sono accumulati nel corso del tempo nell’atmosfera
planetaria e che potranno essere rivelati con
l’utilizzo di telescopi sempre più sofisticati [14]. Un altro metodo ‘alternativo’ che
aiuterà gli astronomi a rivelare segni di eventuali forme di vita biologica
consiste nell’identificare la molecola organica più semplice, cioè il metano, un idrocarburo detto anche impropriamente gas di città [15]. Questa
tecnica permetterà di capire, per la prima volta, se esistono molecole ad
alta temperatura, ben al di sopra di quelle terrestri, fino a 1220°C. Gli
astronomi saranno così in grado di analizzare lo spettro delle atmosfere planetarie per vedere come esse assorbono la luce
stellare a varie frequenze. Quindi, il passo successivo sarà quello di
confrontare i dati ottenuti con il modello per identificare le varie molecole. La convinzione che un tale metodo
d’indagine possa funzionare proviene dalla lezione che abbiamo imparato nel
corso degli ultimi dieci anni relativamente allo studio e all’analisi delle
atmosfere, anche se esistono delle limitazioni che non ci permettono
ancora di identificare composti molecolari o la presenza di nubi perchè non
disponiamo ancora di un potere esplorativo tale da distinguere la presenza
dei gas nell’atmosfera senza effettuare osservazioni dirette della superficie.
Ad ogni modo, questa tecnica apre nuove prospettive soprattutto per la ricerca di
molecole organiche simili a quelle che hanno preceduto l’evoluzione della vita
sulla Terra. Lavorando in sinergia con i telescopi spaziali, quali Hubble e Spitzer, e quelli di nuova
generazione, come il James Webb Space Telescope o l’European
Extremely Large Telescope (E-ELT), questo metodo diventerà di fondamentale importanza
per rivelare bioindicatori, come ad esempio l’ossigeno, in quelle atmosfere planetarie
che caratterizzano quei corpi celesti simili alla Terra.
La figura illustra le fasi principali che hanno permesso
agli astronomi di ottenere lo spettro del pianeta gioviano HD 189733b.
La composizione chimica dell’atmosfera presenta tracce di diossido di
carbonio (CO2), metano (CH4) e acqua (H2O).
Credit: ITF/Hubble/Spitzer
g) L’inquinamento atmosferico delle città aliene
Mai
come oggi, l’umanità si trova “vicina” alla soglia della rivelazione di
segni di vita extraterrestre su altri mondi. Abbiamo detto in precedenza che lo
studio delle atmosfere planetarie può
rappresentare un ottimo strumento d’indagine per identificare alcuni gas come
l’ossigeno ed
il metano che possono esistere solamente se
vengono riforniti da forme di vita semplici, come ad esempio i microrganismi. E le
civiltà avanzate? Potrebbero produrre dei segni identificativi della loro
presenza? Forse sì, se viene immesso nell’atmosfera materiale inquinante.
In tal senso, uno studio recente condotto da alcuni teorici dimostra come sotto
certe condizioni potremmo essere in grado di rivelare segni di inquinamento
atmosferico, offrendo così un nuovo approccio verso la ricerca di forme di
vita di tipo intelligente [16]. Il telescopio spaziale James Webb (JWST) potrebbe essere in grado di rivelare
due tipi di clorofluorocarburi (CFC), cioè quei composti chimici capaci
di distruggere l’ozono che
sono utilizzati in alcuni solventi ed aerosol. Secondo alcune ipotesi, una civiltà aliena
intelligente potrebbe inquinare intenzionalmente la propria atmosfera fino a
livelli almeno 10 volte superiori rispetto a quelli presenti sulla Terra
causando così un riscaldamento globale che determinerebbe un aumento della
temperatura del pianeta che altrimenti sarebbe troppo bassa per permettere
l’esistenza di eventuali forme di vita. Tuttavia, rivelare la presenza di
inquinanti su pianeti di tipo terrestre che
orbitano attorno a stelle nane richiede l’utilizzo di strumenti che vanno ben
al di là di JWST. Dunque, se da un lato la ricerca di CFC potrebbe fornirci
preziosi indizi sull’esistenza di civiltà intelligenti, dall’altro essa ci
permetterebbe di rivelare i resti di una civiltà avanzata che si è
autodistrutta. Alcuni inquinanti persistono nell’atmosfera terrestre su tempi
scala dell’ordine di 50 mila anni, mentre altri durano solo 10 anni. Perciò,
rivelare molecole che appartengono alla categoria del ciclo più lungo e non
trovarne quelle della categoria del ciclo più breve potrebbe implicare il fatto
che le loro sorgenti si sono ormai estinte. In tal caso, si potrebbe
ipotizzare che gli alieni si son fatti “furbi” e hanno ripulito, per così dire,
il loro ambiente vitale. Oppure, in uno scenario ancora più oscuro, ciò
potrebbe servire come una sorta di monito dei pericoli a cui potrà
incorrere nel futuro l’umanità se non diverremo noi stessi “buoni
amministratori” del nostro pianeta.
h) Laser
robotici
Un gruppo di astronomi stanno sperimentando il primo laser
robotico ad ottica adattiva (Robo-AO) e con un potere esplorativo confrontabile con quello del telescopio spaziale Hubble per
studiare migliaia di sistemi stellari alla ricerca di nuovi esopianeti [17]. La tecnica
dell’ottica adattiva viene utilizzata dai telescopi terrestri per rimuovere gli
effetti di sfocatura delle immagini a causa della turbolenza atmosferica. Il
successo del laser robotico sta nella sua efficienza perchè permette di
osservare centinaia di oggetti candidati in una singola notte rispetto ai
sistemi convenzionali. Finora, il sistema Robo-AO è stato utilizzato per
realizzare oltre tredicimila osservazioni da cui sono emersi risultati
sorprendenti. Gli astronomi hanno identificato particolari esopianeti giganti,
appartenenti alla categoria dei gioviani caldi, che si
muovono su orbite strette e sono presenti in sistemi stellari binari con un numero quasi tre volte
superiore rispetto agli altri pianeti. Questi sistemi planetari unici sono
interessanti per capire come hanno origine i pianeti ma anche per ricavare
preziosi indizi sull’esistenza di eventuali forme di vita aliena. Oggi, le osservazioni condotte col sistema Robo-AO,
che copre una lista di 715 candidati identificati dal satellite Kepler,
rappresentano la campagna scientifica più grande mai realizzata con il sistema
dell’ottica adattiva. Ora, il passo successivo sarà quello di estendere le
osservazioni a 4000 oggetti che sono nella lista dei candidati di Kepler e
anche a quelli che di volta in volta saranno identificati dalla prossima missione
K2 di Kepler.
Conclusioni
Nonostante
la ricerca di nuove terre abitabili rappresenti oggi una priorità, tuttavia c’è
chi è convinto che eventuali forme di vita aliena potrebbero svilupparsi o
essere presenti su un’altra categoria di pianeti, molto diversi da quelli
terrestri [18]. Questi mondi alieni detti “super abitabili”, completamente
ricchi di acqua, “termostati” ideali per climatizzare la temperatura del
pianeta e dotati di uno scudo magnetico adeguato per impedire le radiazioni
cosmiche, avrebbero una massa due o tre volte superiore rispetto a quella della
Terra e potrebbero essere decisamente più vecchi in termini di età. Dovremmo
forse cambiare la nostra prospettiva di ricerca non focalizzandoci solamente
verso l’esplorazione di pianeti terrestri? Infatti, un’altro studio mostra come
sia altrettanto possibile che anche le esolune possano ospitare ambienti
potenzialmente abitabili. Sebbene non siano state ancora identificate, gli
scienziati sono convinti che ce ne devono essere tante, addirittura molto di
più rispetto agli esopianeti [19]. Oggi, mai come prima, abbiamo l’abilità
tecnica ed intellettuale di scoprire e classificare nuovi mondi alieni
definendo, in qualche modo, lo stesso significato di abitabilità. Nonostante ciò, il sogno di osservare pianeti simili
alla Terra comincia a realizzarsi e l'idea che il nostro Sistema Solare non sia
unico si è spostata dalla speculazione filosofica di un tempo alla realtà
quotidiana. Queste scoperte hanno il potenziale di spostare il pensiero umano
sullo stesso piano di ciò che la rivoluzione copernicana produsse nel XVI
secolo. Insomma, siamo solo all’inizio di una
grande avventura e le speranze sono tante perciò non ci rimane altro che
perseguire il nostro obiettivo che, un giorno, potrà finalmente dare la
risposta alla domanda di sempre: siamo soli?
Referenze
[1] Extending the Planetary Mass Function to Earth Mass by
Microlensing at Moderately High Magnification
[2] Characterizing the Cool KOIs IV: Kepler-32 as a prototype for the
formation of compact planetary systems throughout the Galaxy
[3] Assessing the Possibility of Biological Complexity on Other
Worlds, with an Estimate of the Occurrence of Complex Life in the Milky Way
Galaxy
[4] Habitable Zones Around Main-Sequence Stars: New Estimates
[5] Earth-sized planets in habitable zones are
more common than previously thought
[6] Identifying the young low-mass stars within 25 pc. II.
Distances, kinematics and group membership
[7] Detecting bio-markers in habitable-zone earths transiting white
dwarfs
[8] BEER analysis of Kepler and CoRoT light curves: I. Discovery of
Kepler-76b: A hot Jupiter with evidence for superrotation
[9] A false
positive for ocean glint on exoplanets: The latitude-albedo effect
[10] The Importance of Planetary
Rotation Period for Ocean Heat Transport
[11] Detection Technique for Artificially-Illuminated
Objects in the Outer Solar System and Beyond
[12] Methane present in an extrasolar planet atmosphere [13] Detection
of water absorption in the dayside atmosphere of HD 189733 b using ground-based
high-resolution spectroscopy at 3.2 microns
[15] The spectrum
of hot methane in astronomical objects using a comprehensive computed line list
[16] Detecting industrial pollution
in the atmospheres of earth-like exoplanets
[17] High-efficiency Autonomous Laser Adaptive Optics [18] Superhabitable World [19] The Effect of
Planetary Illumination on Climate Modelling of Earthlike Exomoons
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